4 novembre 2011

Short Summers

di Flavio Tranquillo
Fonte: www.flaviotranquillo.com


Ho letto l’intervista che Dajuan Summers ha rilasciato a Yahoo.
Sono molte le considerazioni che si potrebbero fare, ma quelle che eviterei sono proprio le prime che si affacciano alla mente. Accanirsi con l’ex-giocatore di Georgetown per le considerazioni su letti, aerei e trattamenti italiani sarebbe come pensare che “poverino, è abituato all’NBA” : superficiale.
Superficiale come ovviamente è il tono generale dell’intervista, che potete benissimo percepire senza ulteriori sottolineature. Va da sé che la possibilità di fare un’esperienza diversa, di gustare una Cultura nuova e di vivere da privilegiato in una delle città più belle del mondo meriterebbe ben diversa propensione.
E va da sé che molti dei “giudizi” espressi sono in realtà pre-giudizi. Pieni di quell’immaturità che è quasi fatale avere a quell’età e con la formazione di chi sognato ed assaggiato l’NBA per poi venirne in buona sostanza respinto. Non che questo la renda ovviamente più giustificabile.
Se l’MPS, che ha costruito una Dinastia elevando ad arte pazienza e continuità, lo ha tagliato, significa che ha ritenuto non ci fossero i margini per far crescere il giocatore. Dicono anche che più o meno la diagnosi dei Pistons non fosse particolarmente diversa, ma come dice Querejeta per gli allenatori, i giocatori sono come le angurie, finchè non li apri non li conosci. E vuoi aprirli tu, non farli assaggiare agli altri.
Il che esaurisce forse il discorso su Summers ma non quello generale. Intanto a me viene da fare un piccolo esame di coscienza per cercare tutte le situazioni (molte, troppe) in cui mi comporto come lui, dando giudizi non soppesati e figli di piccoli o grandi prevenzioni, preconcetti o tabù.
Finita l’autocritica e accantonato Summers (che non fa stato), mi viene in mente che moltissimi addetti ai lavori durante l’estate hanno convenuto col sottoscritto nel considerare Jerel McNeal una gran presa della Fabi Shoes. Oggi però l’ex-Marquette è un giocatore che tira col 24 % scarso ed in piena crisi. Pur essendo arrivato in un sistema di gioco oliatissimo, David Lighty a Cantù non supera gli 11 minuti per gara. E di esempi del genere, da Dunigan a Moore passando per Benson, ne potremmo fare parecchi altri.
In astratto si tratta di giocatori certamente di sufficiente talento per far bene, soprattutto nel contesto di riferimento. Se così tanti e con così diversi background battono in testa, devono esserci dei minimi comun denominatori. Di sicuro parte delle difficoltà hanno a che fare con i pregiudizi di cui sopra. E, visto dalla parte dei club, con un paio di luoghi comuni che forse meriterebbero un’analisi più profonda.
2-3 decadi fa l’ americano doveva fare 25 punti a partita, altrimenti si perdeva. Gli scudetti vinti cambiando Stotts con Boswell, Aza Petrovic e Ballard con Cook e Daye o Wally Walker con JB Carroll appartengono però al passato quanto il Commodore 64 ed i 45 giri. In primis perché di Boswell, Daye e Carroll liberi non ce ne sono. Ed in secundis perché comunque non stiamo parlando di squadre fatte da 8 italiani, di quintetti-base che stanno in campo 35 minuti, di attacchi che per 30 secondi disegnano eleganti ghirigori sul campo e di partite preparate dando un’occhiata al VHS arrivato per posta. E’ tutto diverso, non tutto meglio e non tutto peggio ma di sicuro differente.
Aggiungeteci meno soldi, più concorrenza in Europa, più squadre NBA, ed avrete un quadro in cui comunque l’idea che si possa alterare drammaticamente il quadro facendo venire il fenomeno alla Paolo Villaggio di “Sistemo l’America e torno” è pura illusione. E’ invece vero che ci sono fior di Melvin Booker, Bootsy Thornton e Linton Johnson (per pescare solo tre esempi da un mazzo sconfinato) che non avremmo mai scoperto se, come era stato ormai deciso, fossero stati tagliati a furor di popolo e statistiche deludenti.
Questo non significa che aspettando tutti diventano dei Thornton, anzi. Anche se nel caso di specie sarei dispostissimo a scommettere che tra un paio d’anni per Lighty e McNeal si scateneranno aste milionarie nel Vecchio Continente. Il punto vero però è che se a questi giocatori viene chiesto di essere quello che non sono (McAdoo, Danilovic o Shackleford per intenderci), di sicuro non lo diventano. Piccolo addendo: le valutazioni di cui stiamo parlando attengono per il 95 % ai punti segnati e per il 5 % al lato comportamentale, fatte salve le meritorie eccezioni. Nel basket e nella vita però, per fortuna !, c’è anche dell’altro. Tipo difesa, intanglbles, upside ed altri termini, non tutti anglofoni, che dovrebbero concorrere alla valutazione in questione.
Non basta. Il mercato USA offre comunque una vasta rosa di nomi su base stagionale, a differenza di altri, segnatamente quello nostrano. Un’altra ragione per cui, nel momento in cui invale l’equazione “va male=devo cambiare” ci si rivolge di là, e le farneticanti regole sui passaporti inducono a cambiare un USA con un USA. Magari rivolgendosi a chi l’Europa la conosce già, così si riducono i tempi di adattamento (vero). Col risultato però di stra-valutare alla lunga l’esperienza rispetto al valore intrinseco del giocatore. Al netto di tutti i casi specifici e di tutte le carenze dei singoli, a macro-livello mi pare si possa avanzare l’ipotesi che tutti questi fattori concorrano con le inadeguatezze tecniche e culturali dell’ USA di turno a creare una situazione non ottimale.
Sarebbe facile liquidare tutto quanto sopra come il solito Tranquillo americanofilo. Fate pure se vi fa piacere, ma l’idea era del tutto opposta. Postulate le clamorose carenze culturali e la conclamata difficoltà nel reperire sostituti superiori (specie in poco tempo sotto la pressione dei risultati negativi) forse varrebbe la pena di non dare a chi arriva l’impressione di essere qui a tempo. Ne guadagnerebbero tutti, compresa la qualità dello spettacolo. Che curiosamente non viene mai presa in esame quando si cercano i mali del prodotto-basket.
Ma se io so che oggi sarò una pedina di un “Horns up” in Italia in attesa della Germania tra due mesi e del Belgio tra 7 (o viceversa) non sarà poi il caso di lamentarsi se sembra che tutti giochino alla stessa maniera e se manca lo spirito. E fatemi aggiungere, se i ritardi nei pagamenti sono l’argomento del 90 % delle conversazioni tra addetti ai lavori, forse la possibilità di fare filosofia è ancora minore.
Insomma, certo la soluzione non l’ho. E certo se dovessi ragionare davanti allo spettro della retrocessione (vero e presunto che sia) anche io telefonerei in giro per sapere chi è libero e cambierei Smith con Williams (che certo non è quello che ha fatto Siena, sia ben chiaro). Ma il meccanismo visto nel suo insieme mi sembra vivere più di abitudini che di analisi. Interrogarsi su come fermarlo (levando le retrocessioni ?) potrebbe avere un bel po’ di senso.
         

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